Ancora un lunedì triste, che ci fa riflettere, meditare in silenzio e ci fa chiedere come possa un padre uccidere il proprio figlio. Un fenomeno che ci sconvolge e ci lascia attoniti ogni volta e al quale non riusciamo a dare delle risposte
Siamo alle solite e ormai sembra una direzione inevitabile, senza possibilità di scampo. Aprire il cellulare o il pc per leggere cosa accade nel mondo, in Italia, e trovare ancora una volta il viso di un bambino in prima pagina, ucciso dal padre. Che poi si toglie la vita.
E’ uno scenario visto già troppe volte e inevitabilmente parte la ricerca ai dettagli privati di questa famiglia, fino a poche ore fa sconosciuta e oggi protagonista di una delle vicende di cronaca più nere.
Andrea, vittima di suo padre, come Elena e Diego (a Lecco, luglio 2020 ndr), vittime del padre, poi suicida. Storie di famiglie sgretolate, storie di genitori innamorati dei figli e che poi diventano improvvisamente carnefici, per cosa? Per vendetta? Per l’incapacità di sopportare la fine di un rapporto, la fine del matrimonio?
A Torino, come a Lecco, la musica non cambia: sono sempre le stesse note dolenti, stonate. E sono anche le stesse modalità, abbastanza subdole e ambigue di ‘annunciare’, in qualche modo, le proprie brutte intenzioni su Facebook.
Con un dettaglio a dir poco agghiacciante: le stesse identiche parole sia per il papà dei gemelli che per Claudio, papà di Andrea: “sempre insieme“. Ci sarebbe, in effetti, da interrogarsi a lungo sulla grande e pericolosa capacità delle notizie di cronaca di far scattare la molla dell’emulazione. E noi giornalisti nel dare una notizia di cronaca, come dovremmo ‘pesare’ cosa dire e non dire?
Siamo anche noi responsabili di questo fenomeno? Perché, forse, a volte, rivelare dettagli piccoli, minuziosi, può far nascere un istinto malsano, può incoraggiare chi covava dentro una voglia latente di farla finita e di portare con sé in questa triste oscurità anche chi non ha colpa dei propri fallimenti: come i figli.
Non vuole essere un’accusa: le notizie vanno divulgate, anche per mettere in guardia chi possa ancora evitare il degenerare di situazioni già logore. Per spingere ad agire, parlare, invocare protezione il più possibile. Anche se, poi, su questo fronte, si apre spesso la polemica sulla poca affidabilità delle istituzioni e dei professionisti. Di chi, secondo l’opinione pubblica e (im)popolare, non è stato in grado di capire, di prevedere il disastro.
A noi resta un forte sgomento, un senso di impotenza. Perché non riusciamo a fermare questo fenomeno? Perché non riusciamo a proteggere delle vite innocenti?
Alla base c’è, di certo, una crisi di identità dell’istituzione famiglia. Le famiglie non resistono più alle difficoltà, si spezzano, si dividono e soffrono. I due casi di cronaca sopracitati potrebbero essere accomunati, poi, per un sentimento di vendetta covato dal padre nei confronti della madre.
E allora questo vuole essere un umile appello: alle mogli e madri, ma anche ai mariti e padri, che si trovano in situazioni difficili, che, non riuscendo a superare l’incomunicabilità in cui piombano i rapporti, pensano che non ci siano motivi per lottare, per vivere. Perché anche se non si è tenuta insieme la famiglia, anche se questa rappresenta un grosso fallimento o una grossa umiliazione, non potrà mai essere un buon motivo per farla finita e soprattutto per portare con sé nel baratro i propri figli. Loro non hanno colpa! Si può sempre ricominciare, c’è sempre una seconda possibilità, c’è sempre un’altra strada e se non la vediamo sforziamoci di chiedere aiuto. E chiediamo aiuto anche per chi ci è accanto, se egli non è in grado di farlo.
Perché fa male ed è veramente ingiusto vedere delle vite spezzate in questo modo.